Il corrosivo del 17 marzo 2015
Un serpeggiante
colabrodo
Giuseppe
B. passò gli ultimi anni della sua
adolescenza a sognare il giorno in cui si sarebbe potuto
permettere l’acquisto di un vestito nuovo. Aveva sperato
che il grande evento arrivasse il giorno della sua prima
comunione, ma non era stato possibile. Nel comunicargli
che la famiglia non aveva le possibilità di un acquisto
così impegnativo, sua madre era più triste di lui.
Quanto a suo padre, si era limitato a delegare alla
moglie il compito di dare la brutta notizia e poi, per
tutto il giorno, in chiesa e dopo, e anche
successivamente, nei giorni seguenti, aveva evitato il
suo sguardo, certamente ancora più amareggiato di lui,
che lo era molto.
Ma gli anni si susseguirono senza che l’acquisto venisse
fatto e il vestito nuovo rimase un sogno irrealizzato
fino al giorno in cui Giuseppe si sposò. Quel giorno il
vestito nuovo lo indossò e in Chiesa, davanti
all’altare, a fianco della sposa in abito bianco, si
sentiva un damerino. Era un vestito confezionato dal
miglior sarto della città, che aveva fatto un vero
capolavoro. Gli stava a pennello, era lucido, lussuoso,
un capo d’opera. C’era da menarne vanto davvero. E
Giuseppe, che lo indossò in seguito soltanto nelle
grandi occasioni, se ne vantava e ogni volta,
indossandolo, ne era fiero. Pochi in paese avevano un
bel vestito così.
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I primi segni che l’abito andava invecchiando
si ebbero una ventina d’anni dopo. Uscì qualche piega che prima
non c’era, qualche parte delle maniche sembrava sgualcita, il
colore non era più quello. Ma ad indossarlo faceva sempre la sua
bellissima figura. La naftalina gli dava un cattivo odore, che
si spandeva nella camera e quasi in tutta la casa quando si
apriva l’armadio, ma le tarme dovevano con tutta evidenza averne
un sacro terrore, se dopo tanti anni non erano riusciti a fare
nemmeno un buco.
Però, ahimè, le cose della vita sono
sempre complicate e con gli anni la naftalina fu un
po’ trascurata, il vestito venne indossato di meno, anche perché
cominciava a stare stretto e c’era il pericolo che si sgualcisse
a volerlo indossare per forza. Accadde così che un giorno
Giuseppe, aprendo l’armadio (erano ormai passati tanti anni dal
giorno in cui lo aveva indossato la prima volta), si trovò
davanti ad una sgradita sorpresa. O la naftalina era stata poca,
o le tarme si erano abituate, fatto sta che l’abito presentava
dei buchi, e un po’ dovunque, anche nelle parti che sarebbe
stato impossibile nascondere. La decisione fu presa. Giuseppe
andò da un sarto (un altro, perché il maestro che lo aveva
confezionato era morto) e lo fece mettere a posto. Si fece quel
che si poté. Qualche buco fu tappato, qualche altro fu
aggiustato, nelle parti non esposte si mise qualche pezza.
Giuseppe,
quando indossò nuovamente il vestito, tornò ad essere fiero. Era
sempre un capolavoro, anche se bisognava fare molta attenzione
perché non si rovinasse. Passarono ancora gli anni. Il vestito,
tornato nell’armadio, ci restò forse troppo, e troppo
trascurato. Così, quando Giuseppe pensò di indossarlo nuovamente
per le nozze d’oro (o erano addirittura di diamante?), non
riuscì ad indossarlo: a mano a mano che provava la stoffa,
troppo consunta, si squarciava e si sbrindellava, cadeva a
pezzi, fino a quando tra le mani non si trovò che un panno che
di un vestito non aveva più nemmeno la forma, non parliamo della
funzione.
Ecco, amici miei. Ho
ripensato alla storia di Giuseppe e del suo vestito in questi
giorni, a proposito della penosa situazione di quel che fu un
vanto della nostra provincia e oggi è soltanto una rete idrica
tutta bucherellata che cade a pezzi e cede sotto il peso di
frane fin troppo previste: l’Acquedotto del Ruzzo.
L’idea di realizzare un acquedotto consortile utilizzando le
sorgenti del Ruzzo per supplire alla carenza idrica nel
teramano, dell’ing. Alfonso De Albentiis e del sig. Bona, nacque
nel 1904, ma solo nel 1912 fu accolta favorevolmente da alcuni
comuni e l’8 giugno venne costituito un Consorzio. La
costruzione effettiva dell’acquedotto restò un sogno, per anni e
anni, e si dovette aspettare il settembre del 1929 per
l’approvazione e il finanziamento di un primo stralcio del
progetto. Due anni dopo, nel 1931, fu stipulato un mutuo e i
lavori vennero appaltati. Vennero iniziati nel 1934 e, costruito
a tempo di record dall’impresa Del Fante, sotto la direzione
dello stesso ing. Alfonso De Albentiis, l’Acquedotto venne
inaugurato solennemente nel 1936, alla presenza delle autorità.
Era un capolavoro. C’era da menarne
vanto. Un’opera meravigliosa. Da esposizione. Di
un’efficienza straordinaria e di una bellezza progettuale senza
pari. Nel 1950 un nuovo serbatoio sostituì quello in uso, ormai
insufficiente e con qualche problema, e fu inaugurato
dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici on. Umberto Tupini.
L’acquedotto tornò ad essere un capolavoro e consentì di
alimentare idricamente fontane pubbliche e lavatoi, di avere
l’acqua corrente dentro le case. Un lusso.
Nel corso degli anni la rete
di tubature venne a lungo trascurata, pochi furono gli
investimenti e il denaro scorse, a fiumi, per altri rivoli,
diversi da quelli che avrebbero portato ad una saggia ed utile
manutenzione. Le risorse furono destinate alla politica e i
soldi presi dalle bollette dei teramani servirono per assunzioni
clientelari e per i parassiti, che non mancano mai e anzi sono
sempre tanti. Scomparvero i fontanieri, i tecnici, i progettisti
e si moltiplicarono i dirigenti, gli impiegati, gli inservienti
senza funzioni. Nei tubi cominciò a scorrere non più l’acqua, ma
il fango, dalle rotture l’acqua fuorusciva in quantità bagnando
la terra circostante, che poi franava e franando faceva rompere
altri tubi.
In questi ultimi giorni,
come fece Giuseppe con il suo vestito una volta nuovo ma
diventato con gli anni troppo consunto per poter essere
indossato ancora, i teramani si sono ritrovati per giorni e
giorni senza acqua: l’acquedotto non è più tale, ma un enorme,
lungo, serpeggiante colabrodo.
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