Il corrosivo del 19 dicembre 2014

 

Ma come fanno gli avvocati?

 

Ma come fanno gli avvocati
con le loro toghe nere
sempre in cerca di un’assoluzione,
ma come fanno gli avvocati
con le loro facce stanche
sempre in cerca di un reo da salvar.
  Ma come fanno gli avvocati
a pronunciar le loro arringhe
sempre uguali sempre quelle
davanti alle giurie popolari,
ma come fanno gli avvocati  
a difendere i colpevoli
a rimanere veri uomini però.

    

Compresi abbastanza presto, già sui banchi delle scuole elementari, che il mio primo sogno di fare da grande il medico non si sarebbe mai realizzato, a causa della mia ipocondria inguaribile: era sufficiente che sentissi accennare appena ad una sintomatologia, perché l’avvertissi come presente in me in modo assolutamente realistico. In tutta la mia vita ho poi dovuto fronteggiare quella che considero una vera e propria malattia. Ancora oggi non appena sento - o leggo - la descrizione di un sintomo, subito comincio ad avvertirlo. E’ una ipocondria parossistica. Pensai allora che da grande mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato. Il desiderio mi prese soprattutto quando, ancora al ginnasio, riuscii finalmente a superare un limite che mi aveva sempre condizionato: una erre moscia che rendeva spesso incomprensibili alcune parole da me pronunciate.

 

     Superato questo problema, mi sentivo padrone del mondo e del mio destino, anche perché mi riconoscevo una certa padronanza linguistica e una qual certa propensione all’eloquenza. Mi disegnai così un percorso universitario ben preciso: mi sarei laureato prima in filosofia, per acquisire una visione ampia del mondo e delle cose della vita, e poi mi sarei iscritto a giurisprudenza, per conseguire la laurea che mi avrebbe consentito di fare l’avvocato, penalista, come desideravo.
     Non andò come avrei desiderato e il mio percorso si interruppe, subito dopo la laurea in filosofia. Mi misi a fare l’insegnante e non mi iscrissi a giurisprudenza. Non feci l’avvocato. Per dirla in maniera molto chiara, avevo maturato una convinzione, anche per qualche esperienza fatta come cronista giudiziario: da filosofo mi ero messo al servizio della verità, da avvocato mi sarei messo al servizio della falsità.
     
Tralascio ogni riferimento al gusto che provai nel leggere le difficili pagine dei “Lineamenti della filosofia del diritto” di Hegel e alle riflessioni che ne scaturirono. Tralascio ogni altro rimando a letture di ogni tipo e vengo subito al punto cruciale. Avrei dovuto limitarmi ad assumere la difesa solo degli accusati innocenti, della cui innocenza sarei stato assolutamente convinto? Questo mi parve subito utopico. Compresi che gli avvocati, tutti gli avvocati penalisti, sia i grandi che i piccoli, erano chiamati a garantire il diritto di difesa anche ai colpevoli, anche a quelli che, essendo colpevoli, si ostinavano a dichiararsi innocenti, anche quelli che confessavano ai loro difensori di non esserlo.
     
Ho conosciuto molti avvocati, alcuni lo sono diventati dopo essere stati miei alunni, e molti li ho scongiurati di dirmi la verità quando ho chiesto loro come riuscivano a difendere accusati di crimini anche gravi pur sapendoli colpevoli. Come facevano, ho chiesto loro - come fanno - a non far trasparire sul loro volto, durante le loro arringhe difensive, il fatto che fossero - che siano - a conoscenza della colpevolezza dei loro assistiti (che chiamano così, per evitare l’espressione meno elegante di “clienti”)? Sul mio volto si sarebbe visto. Non avrei potuto affermare una cosa, sapendone un’altra. Non avrei potuto argomentare su un’innocenza, nella piena consapevolezza di una colpevolezza. Avrei dovuto tradire il vero e dire il falso, sposare una tesi conoscendone la falsità e negarne un’altra conoscendone la verità.
     
“Amicus Plato, sed magica amica veritas”: questo motto aristotelico, sposato in pieno, vanificò la mia (im)probabile carriera da avvocato. Certo avrei potuto essere un pubblico accusatore, ma avrei fatto un altro mestiere, il magistrato. Non ne ebbi l’ardire, perché per quello occorreva qualche dose di elasticità e di malleabilità. Rimasi a fare il filosofo, o, più modestamente, l’insegnante di filosofia, ma con una grande ammirazione per gli avvocati penalisti. I quali come prima cosa chiedono ai loro assistiti di dire loro la verità: sono colpevoli o innocenti? Se non sono innocenti, ci penseranno loro a farli sembrare tali e a farli certificare come tali da una giuria. Ma a tutti diranno, senza eccezione, che della innocenza dei loro assistiti sono pienamente convinti e a nessuno confesseranno di nutrire in merito il minimo dubbio, nemmeno a me. Conserveranno il loro segreto professionale con la stessa gelosia con la quale i preti conservano il segreto della confessione.
     
So per certo che molti imputati dicono ai loro difensori di essere innocenti, pur non essendolo. So che i loro difensori provano una grande delusione quando, dopo aver sostenuto con vigore e con grande convinzione l’innocenza dei loro assistiti, scoprono per caso che hanno contribuito a ingannare la corte ottenendo una sentenza di assoluzione. So di alcuni imputati assolti che hanno gettato in faccia ai loro avvocati difensori, ad assoluzione ottenuta, tutto il peso di una confessione di colpevolezza. Ma io continuo oggi a pormi l’interrogativo che ho posto all’inizio, parodiando la canzone di Lucio Dalla: ma come fanno gli avvocati? Come fanno a dire il falso cercando di farlo passare per vero? Come fanno a cercare di far passare per santo un criminale e a conservare il rispetto di sé?
     
Sono sicuro che non lo fanno solo per denaro. Di alcuni che conosco, ho tanta stima da sapere con certezza che non lo fanno per questo, o almeno non solo per questo. Ma come fanno, allora? Come fanno a difendere e a far assolvere dei colpevoli e rimanere “veri uomini”?