Il corrosivo del 4 settembre 2012 

 

"Medice cura te ipsum" 

 

“Medice, cura te ipsum”. “Medico, cura te stesso”. Questa allocuzione latina, derivante dalla cultura ebraica, la si ritrova nel Vangelo di Luca e nel corso del tempo ha avuto diverse interpretazioni metaforiche, la più importante delle quali è quella che invita a non biasimare i difetti altrui senza guardare ai propri, insomma a non prendere in considerazione la pagliuzza nell’occhio del vicino più che la trave nel nostro occhio (anche questa metafora la si ritrova nel Vangelo di Luca).

   Ne tenterò qui, tuttavia, non una diversa interpretazione metaforica, ma una sorta di adattamento basato su una lettura più letterale del concetto “Medico, cura te stesso”. Mi rivolgo propriamente al medico (ai medici, alla categoria dei medici), che voglio invitare a curare il suo male (i loro mali), ma non inteso come male fisico, bensì come male morale. Due sono i mali morali di cui si ammala (purtroppo assai spesso) un medico (i medici). Il primo è la “carrierite” e, come tutte le malattie, può essere acuta o cronica.

 

     Quando un medico si ammala di “carrierite”, non considera più come obiettivo primario la cura del malato e la sua guarigione, il lenimento di un dolore fisico della persona che cura e l’assistenza anche psicologica del suo paziente. Il medico che si ammala di questo morbo severo bada soltanto a fare carriera, a fare del suo successo professionale il trampolino di lancio verso un primariato ospedaliero, per il cui conseguimento è disposto a fare di tutto, a rinunciare ad ogni principio etico, al rispetto verso i colleghi, alla giusta considerazione di cose e fatti, ad ogni espressione di autenticità morale e ad ogni affermazione di valori. Il medico che vuole fare carriera travolge tutto e tutti e considera gli ammalati come oggetti di cui servirsi e non come fini, venendo perciò meno al principio kantiano secondo cui bisogna considerare l’uomo che è in noi e negli altri come fine e non come mezzo. Il medico in carriera vive uno stato di frustrazione e di secondarietà se non riesce a diventare primario e poi anche qualcosa di più, se non si vede riconosciuto un ruolo adeguato, muore di invidia per i colleghi che lo sono diventati, è disposto a fare di tutto, anche a tradire l’amico più caro, pur di intralciarlo, se questo serve a migliorare il suo stato nella scala gerarchica. Sono molto spesso i medici malati di “carrierite” che si danno alla politica, smettendo di fatto di essere medici, perché pensano (a ragione) che la politica possa aiutarli a fare carriera, a conquistare primariati e incarichi. Questi medici diventano così degli arrampicatori che considerano l’essere politici come un mezzo per fare carriera come medici e l’essere medici come un mezzo per fare carriera come politici. Così le due carriere, quella medica e quella politica, si intrecciano in modo perverso, producendo due mostruosità: il medico-politico e il politico-medico. I pazienti vengono considerati elettori, le loro famiglie serbatoi di voti, le loro prestazioni pioli di una scala sulla quale arrampicarsi sperando di arrivare sempre più in alto, magari fino al paradiso di un assessorato regionale alla sanità.

   La seconda malattia che incombe sui medici è “l’avidità del denaro”. Quelli che la contraggono considerano il paziente una mucca da mungere, la malattia uno stato da cui trarre benefici economici, pensano che il successo professionale si misura non con il numero delle guarigioni ottenute, ma con quello delle loro parcelle e dell’entità dei loro compensi e, quindi, dei loro conti in banca. Sono del tutto indifferenti ad ogni valore di umanità, del tutto estranei ad ogni altra considerazione che non sia quella dell’accumulo di beni materiali. I più malati arrivano a curare malattie inesistenti, a somministrare farmaci inutili e, se chirurghi, ad operare presunti pazienti che di essere operati non hanno bisogno. Muoiono di invidia quando vedono altri medici, malati come loro, che si fanno pagare di più per ogni loro visita, ricattano continuamente coloro che visitano chiedendo a chi è già turbato per conto suo se vuole o no la ricevuta della somma che versa, ovviamente inferiore a quella che si deve sborsare se non la si vuole.
   Non è raro, anzi è piuttosto comune, che i medici che si ammalano di “carrierite” si ammalino anche di “avidità di denaro”, perché le due malattie sono strettamente collegate e sono epidemiche (e quindi anche contagiose), oltre che endemiche. Al di là del giusto riconoscimento del valore di un medico, al di là del giusto ed adeguato compenso che spetta a chi studia, si aggiorna e si impegna nella cura degli ammalati, lasciate che io esprima la mia più profonda esecrazione per i medici carrieristi ed avidi. Ma esprimo anche la mia pena, la mia commiserazione, quella che si deve esprimere verso chiunque si ammali di una qualsiasi malattia. Sono poveri malati, curiamoli! E diamo loro, “primariamente”, il consiglio di curare se stessi. Perciò dico, con un’accezione diversa da quella comune del significato metaforico dell’allocuzione: “Medico, cura te stesso”. “Medice, cura te ipsum”.